Parigi, la terza città portoghese
#112_Gli assaggi di attualità franco-iberica del 24 giugno 2025
Mes chers compatriotes,
Mezzanotte, 1° novembre 1969.
Sul ciglio di Rue de Dunkerque a Champigny-sur-Marne, nel cuore della periferia parigina, una giovane donna piange a dirotto. Ha 25 anni e tiene in grembo i suoi figli di sei mesi e due anni.
Maria Prazeres Fernandes è quasi giunta al capolinea di un viaggio rocambolesco, cominciato a Póvoa de Varzim, in Portogallo, due settimane prima. Clandestina, la giovane donna fa parte di quella diaspora portoghese che, durante la dittatura di António de Oliveira Salazar, ha svuotato il Paese affacciato sull’Atlantico.
Dei circa 1,5 milioni di portoghesi emigrati in quegli anni, 900.000 scelgono la Francia come destinazione finale. Tant’è che nel 1975, i portoghesi diventano la prima comunità straniera del paese: il 22 %, quasi un quarto del totale. Non è un caso se oggi Parigi è considerata la terza città portoghese al mondo, dopo Lisbona e Porto.
La maggior parte arriva in maniera irregolare e proviene dalle campagne povere che risalgono il Tago. Considerati «immigrati modello» e ottimi lavoratori, i portoghesi si concentrano nella periferia parigina, come nella baraccopoli di Champigny-sur-Marne - la più grande di Francia - dove, fino al 1972, vivono tra i 12.000 e i 15.000 portoghesi.
Maria era una di loro. Questa è la sua storia.

Quella di oggi è una puntata speciale scritta a quattro mani, tutte torinesi. Una collaborazione, o joint venture come si direbbe in economia, tra Ibérica e burrosalato.
Buongiorno da Parigi, sono le 7 di martedì 24 giugno 2025 e questo è l’assaggio di oggi. Tempo di lettura: 10 minuti ⏳🔻
Il cammino portoghese
Maria oggi ha 81 anni ed è tornata a vivere in Portogallo con il marito.
Quando la intervisto, si trova a Ozoir-la-Ferrière per il battesimo di uno dei suoi nipotini, in quella stessa periferia parigina dove ha vissuto per 25 anni.
Da dove vieni, Maria?
Da Porto de Mós, nella regione di Leiria nel centro del Portogallo. Circa un'ora e mezza a nord di Lisbona.
È da lì che sei partita per la Francia?
Sono andata prima a Nord del Portogallo, vicino a Póvoa de Varzim.
Volevo partire per raggiungere mio marito, che era già in Francia, e mia sorella. Il problema è che la polizia fermava le persone alla frontiera. Mio marito era riuscito a fuggire dopo due tentativi falliti, motivo per cui le autorità gli stavano addosso. Era un’epoca davvero difficile: non avevamo quasi nulla da mangiare.
Raccontami del tuo viaggio
Sono partita da sola, con i miei due figli e una valigia. Sono arrivata in una pensione dove c'era già una signora con un bambino e un uomo: il suo amante. Siamo rimasti nella pensione per quattro o cinque giorni, io non osavo uscire dalla stanza.
Una sera, è venuto un signore sconosciuto. Ha detto solo: «prepari i suoi figli, partiamo oggi». Nella macchina c'eravamo noi e i nostri vicini.
Era notte fonda quando siamo arrivati al punto di ritrovo. Siamo rimasti lì due ore, sentivo il rumore dell’oceano. Il bambino della vicina piangeva senza sosta. Avrà avuto un anno. A un certo punto, il suo amante, seduto davanti, le ha detto: «dammi il bambino» e ha cominciato a dargli il biberon a forza. Ma il bambino continuava a piangere. La donna gli ha intimato di smetterla, perché così faceva male al piccolo. Lui si gira con una pistola: «zitta oppure uccido il bambino e lo butto in acqua». Avevo molta paura, ma quella notte non siamo partiti.
Quindi il primo tentativo non è andato a buon fine?
No. Siamo rimasti altri tre giorni nella pensione e poi una notte, verso le 11 di sera, siamo partiti. Abbiamo dovuto attraversare una lunga spiaggia.
Io ero in fondo alla fila, con un uomo sui 60 anni che arrancava. Tre ragazzi di Madeira sono venuti ad aiutare me e l'uomo, hanno preso in braccio mio figlio, mentre io tenevo mia figlia. Voleva camminare, non voleva che qualcun altro la prendesse in braccio, era terrorizzata.
Siamo arrivati a una piccola barchetta. Io, in quel momento, non sapevo più dove fosse mio figlio. Poi siamo giunti sotto una nave più grande. Per salire, bisognava attaccarsi a una corda. Arrivata in cima sono svenuta. Sulla nave erano tutti spagnoli. Mi hanno sdraiata insieme a mia figlia. Al mattino, ho sentito un piccolo piangere, ma non mi sono resa subito conto che fosse mio figlio.
Poi ho capito e ho esclamato: «è il mio bebé, è il mio bebé!»
Quant’è durata la traversata?
Abbiamo passato dieci giorni in mare. Di giorno stavamo fermi, viaggiavamo di notte. Io non mi reggevo più in piedi, ero debole. Un giorno, uno degli spagnoli dell'equipaggio è venuto da me, dicendomi: «ascolti signora, si deve alzare perché quando arriviamo a Marsiglia, dovrete attraversare la banchina da soli. Noi non possiamo accompagnarvi».
Era fine ottobre, faceva freddo.
E siete riusciti a scendere a Marsiglia?
Sì, siamo scesi al porto. C'era un uomo che continuava a seguirmi. Io avevo paura, temevo fosse la polizia. A un certo punto, l'uomo si è avvicinato: «non abbia paura signora, sono venuto a dirle quale treno prendere».
Era la nostra guida, ci ha dato un biglietto ciascuno, faceva parte del patto. Mio marito aveva pagato 20 contos per tutto il viaggio [un conto equivale a 1.000 escudos, la valuta dell’epoca, ovvero circa un centinaio di euro].
I miei figli continuavano a piangere, avevano fame. C'era un ragazzo che aveva rubato una scatoletta di tonno dalla barca, l'ha aperta e ha cominciato a dare dei pezzi di tonno a mio figlio di sei mesi.
Mi ricordo che appena arrivati a Parigi, ha cominciato a nevicare. Ho provato a coprire mio figlio con la camicia, ma tutti i miei vestiti erano ancora umidi dal viaggio in barca.
Un altro signore è venuto a dirmi che avrei dovuto aspettare in un caffé e che sarebbero venuti a cercarmi. Io non volevo, dicevo: «non resterò qui, voglio vedere mio marito». Ci hanno dato dei panini, ma i miei figli erano troppo piccoli per mangiarli. A un certo punto, una signora mi dice: «aspetti signora, vado a prendere qualcosa per il piccolo». È tornata con una minestrina.

Quando sono venuti a prendervi?
Avevo l'indirizzo di mio marito scritto su un foglio. Dopo un po', il proprietario del bar è andato a cercare un tassista. Sono tornati insieme, io ho mostrato l'indirizzo al tassista. Quando siamo arrivati a Champigny, era mezzanotte.
Non dimenticherò mai la scena: il tassista posa la valigia in mezzo alla strada, mi dice «Rue Dunkerque» e se ne va, lasciandomi lì, sola coi bambini.
Era buio pesto. Sarò rimasta ferma una mezz'ora. Ho preso mia figlia in grembo, stretto mio figlio e ho pianto tutte le mie lacrime. Poi, a un certo punto, ho sentito due voci, le ho riconosciute perché parlavano portoghese. Ma erano lontane e io avevo la valigia, non potevo muovermi.
Le voci si sono avvicinate ed è lì che ho visto queste due signore che tornavano dalla messa di mezzanotte: «cosa ci fa lì, coi bambini?», mi dice la prima. Io rispondo che venivo dal Portogallo, che il tassista mi aveva lasciato lì e che cercavo la mia famiglia.
Ti hanno aiutato?
Sì, sono state molto gentili. Continuavano a ripetermi: «smetta di piangere, venga con noi, si farà una doccia e le daremo dei vestiti puliti. Dormirà da noi e domani mattina andremo a cercare suo marito e sua sorella».
Una delle due ragazze conosceva una certa Duzinda, il nome di mia sorella. Siamo andate davanti alla loro casa e la ragazza mi ha chiesto se mia sorella avrebbe riconosciuto mia figlia. Ho risposto di sì, che l'aveva già vista. Allora l'ha presa ed è andata a bussare alla porta, per controllare se fosse vero. Era lei. E così finisce il mio viaggio.
Quanto tempo sei rimasta nella baraccopoli?
Sono rimasta un mese: noi in una stanza, mia sorella e i suoi bambini e un'altra sorella più giovane nell’altra. C'era una grande comunità portoghese. Era tutta gente onesta, venuta per lavorare.
Mio marito era muratore: lavorava per le ferrovie, la costruzione di autostrade. Alla fine ci siamo trasferiti a Ozoir-la-Ferrière, un po’ più lontano.
È stato difficile integrarsi? In fin dei conti non parlavi francese
Sono sveglia e imparo velocemente! Una delle prime parole che ho imparato è stata ‘cipolla’, perché sono andata a cercarle al mercato.
Dopo qualche giorno mio marito mi ha portato allo sportello della previdenza sociale, per regolarizzare la mia situazione. Ero arrivata senza documenti, da clandestina. I francesi all’epoca apprezzavano particolarmente i portoghesi e gli italiani.
Ho cominciato a lavorare come donna delle pulizie, ma solo dopo che i miei figli sono andati a scuola. Le mie ‘padrone’ sono sempre state gentili, mi hanno aiutato con il francese. Poi ho lavorato al supermercato, nelle scuole. Ma all’inizio è stata dura, non avevo vestiti per i miei bambini. Oggi provo compassione per gli immigrati, perché so che è molto dura per loro.
Metà della famiglia di Maria è rimasta in Francia, l'altra metà è tornata a vivere in Portogallo, tra cui la figlia di 2 anni, protagonista del viaggio.

Dall’Angola a Parigi
Per quanto l’esperienza di Maria sia al contempo unica e rappresentativa, non tutti hanno seguito lo stesso percorso. C’è un piccolo dettaglio da non trascurare: a quell’epoca, infatti, il Portogallo era ancora un impero coloniale. Al crepuscolo.
Siamo quasi alla fine, grazie per aver letto fin qui. Vorrei chiudere su Fernanda Isabel Sebastião, 57 anni, portoghese e angolana.
Suo padre era originario della zona di Trás-os-Montes, nel nord del Portogallo, mentre sua madre era angolana, di buona famiglia.
Nel 1975, pochi mesi dopo la Rivoluzione dei garofani e la guerra d’indipendenza, Fernanda e la sua famiglia si trasferiscono in Portogallo, mentre il padre rimane ancora un paio di anni in Angola. Fernanda aveva 7 anni.

Perché sei partita dall'Angola?
Mio padre amava l'Angola, si sentiva a casa lì. Alla fine della guerra d’indipendenza, le due fazioni principali - la sinistra MPLA, il centro e la destra dell'UNITA - hanno cominciato a combattersi tra loro. Mio padre, preoccupato, ci ha fatto partire di nascosto. Il tempo che le acque si calmassero.
Come avete lasciato l’Africa?
Con molta fortuna. Abbiamo preso un battello da Namibe [oggi Moçâmedes] a Luanda, la capitale e poi siamo rimasti in un accampamento militare per una settimana. C'era gente che aspettava da mesi. Io, all'epoca, non avevo ancora la cittadinanza portoghese, nonostante fossimo una colonia.
E dove siete atterrati?
A Lisbona, ma poi siamo andati a vivere nel villaggio di mio padre, nel nord del Portogallo. Era una regione povera, le condizioni di vita erano molto difficili.
Il freddo regnava non solo nelle temperature, ma anche tra la persone: i portoghesi uscivano da una dittatura, avevamo più libertà noi nelle colonie. Potevano solo andare alla partita la domenica e ascoltare il fado. Mi ricordo che le ragazze portavano delle lunghe gonne e non si tagliavano mai i capelli.
E come sei arrivata in Francia?
Quando mio padre è tornato dall'Angola, ci siamo trasferiti a una cinquantina di chilometri a nord di Lisbona. Avevo uno zio che possedeva un'azienda di mattoni e mio padre lavorava per lui. Ed è qui, in questa zona, che mia sorella ha conosciuto il mio futuro cognato, francese, in vacanza con la sua famiglia.
Si sono trasferiti in Francia, dove hanno avuto due figli. Io andavo a trovarli d’estate, una volta diventata maggiorenne. Ed è così che mi è venuta voglia di restare in Francia e mi sono trasferita nel 1995 vicino a Parigi, a Le Blanc-Mesnil, vicino a Drancy.
La diaspora oggi
L’immigrazione portoghese è una storia dimenticata in fretta: la comunità si è integrata bene, l’Unione europea ha accelerato l’apertura tra i due paesi.
Un successo, certo, che non deve cancellare però le difficoltà, l’esclusione sociale, il razzismo vissuti dagli immigrati portoghesi in quel periodo.
Oggi, il Portogallo è un paese moderno, democratico, una meta che attira turisti, nomadi digitali e pensionati. Soprattutto dalla Francia. Arrivi che stravolgono il mercato immobiliare portoghese, creando una bolla e un aumento dei prezzi insostenibile.
Contemporaneamente, un esodo silenzioso continua: il 30% dei giovani Portoghesi vive all’estero, attirato dagli stipendi più alti dei paesi vicini. Il governo sta provando in tutti i modi a trattenerli, da un regime fiscale più attraente, all’aumento del salario minimo, senza grandi risultati.
_La canzone del giorno_
Conoscete sicuramente «Auuuux Champs-Elysées» - canzone iconica della musica francese dedicata agli Champs-Elysées - interpretata da Joe Dassin. Nel 1970, l’artista francese, scomparso prematuramente, scrive questo pezzo in omaggio ai portoghesi:
«…lontano dal suo tetto, dalla sua città, / a 500 leghe verso nord, / la sera in una baraccopoli, / il Portoghese si addormenta. / È arrivato alla stazione d’Austerlitz, già due anni fa. / Ha un solo pensiero: guadagnare molti soldi e tornare laggiù. / Il Portoghese con il suo impermeabile rosso fiammante, / che somiglia a uno spaventapasseri…»
Da leggere 📚
Nel 2011, l’autore francese di fumetti Cyril Pedrosa, pubblica un capolavoro autobiografico sulla scoperta del suo paese d’origine. Sfogliatelo qui: Portugal (Editions Dupuis).
Da guardare 🎬
«O Salto», film del 1967, diretto dal regista francese Christian de Chalonge.
Il film racconta il viaggio a salto - clandestino - e l’arrivo a Parigi di un giovane immigrato portoghese, venuto per lavorare e fuggire dalla guerra coloniale, e la delusione una volta scoperte le condizioni di vita in Francia.
La colonna sonora è di Luís Cília, nato nel 1943 in Angola da genitori portoghesi, esiliatosi poi a Parigi.
Grazie
per aver letto tutto burrosalato x Ibérica, anche oggi.
Siamo Daniel Peyronel, giornalista scientifico nato a Torino e ormeggiato a Parigi dal 2018 e Roberta Cavaglià, giornalista freelance e consulente in comunicazione, fissa a Barcellona.
È da mesi che io e Roberta lavoriamo ad una doppia puntata speciale, per farvi scoprire lo stretto legame tra la Francia e la penisola iberica, attraverso storie originali e inaspettate. Speriamo che l’idea vi piaccia. Lasciate un cuore qui sotto nel caso, è importante ❤️
À bientôt! Hasta pronto! Até breve!
Ho molto apprezzato questo numero ‘doppio’ complimenti davvero per averlo realizzato!